Mostra personale
Sarnico, Museo Civico "Gianni Bellini" - Via S.Paolo, 8
8 maggio - 6 giugno 2010
Ciro Indellicati è un pittore che scrive, uno scriba che dipinge: addentrandosi e percorrendo a ritroso l’incredibile infinitudine del verbum, biblicamente all’origine dell’universo e storicamente all’origine della civiltà, lo riduce ai suoi caratteri primi e segnici, conferendogli un nuovo valore e significato.
Le sue opere sono come pagine di libri ideali, o meglio, pagine di antichi manoscritti o codici miniati dove l’immagine e il grafema convivono e s’intrecciano generando un unicum semantico profondamente visivo ed intellettuale nel medesimo tempo, quasi che la loro unione potesse in qualche modo dire ben altro, esprimere l’inesprimibile trascendenza del tutto.
Tramite un impasto grumoso ed epidermicamente informale, l’artista compone sacre tavole su cui trascrive grafemi impronunciabili, senza fonia, segni visivi che suggeriscono e sospirano ma non conclamano: tra chiazze di cera e rilievi di gesso, tra spatolate di olio e marcature di grafite.
Indellicati incide una nuova e propria scrittura, quasi a condurre un rito primitivo e fanciullesco di propiziazione della propria esistenza e presenza. Le sue composizioni meditate e severe, telluriche e materiche, testimoniano un rapporto di stretta simbiosi con la realtà naturale, richiamando gli elementi dell’acqua, della terra, del fuoco e dell’aria e velando le proprie opere di un senso di pathos placato e armonioso. Attraverso la propria opera Indellicati astrae in partiture di segni–immagini l’eterno dialogo e confronto dell’uomo con se stesso e con tutto ciò con lo circonda.
L'uomo (...) è stato fatto di terra. Solo in seguito gli è stato soffiato il dono della lingua. Ed è proprio a quella terra che bisogna risalire. Si giunge fino all'urna cineraria, lì ai limiti estremi dell'ingens sylva, fino all'idioma primordiale, edenico. Ma da lì in poi, per incamminarsi nella "terra" della quale siamo fatti, è necessario un alfabeto nuovo, preverbale. Un anti-alfabeto.
Flavio Ermini da "Il giardino conteso. L'essere e l'ingannevole apparire" - Moretti & Vitali Editori - 2016
La lingua interna, segreta, non espressa di cui parlo, (…) è la nostra lingua più soggettiva e più autonoma (…) quella che usiamo con noi stessi (…) discorso afono di noi con noi stessi. (…) Queste espressioni linguistiche prive di suono e di voce, e persino d’una concatenazione sintattica, sfuggono davvero ai consueti schemi semiologici.
È, insomma, una vendetta dell’Asemantico. È la riprova che esiste - deve esistere - un piccolo sacrario privato e incontaminato dove la dottrina dei segni fa cilecca e non riesce ad addentrarsi.
Il cieco custodisce lo sguardo, come il muto la parola – l’uno e l’altro, depositari dell’invisibile, dell’indicibile;
custodi infermi del Nulla.
VOLA ALTA, PAROLA
Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami
nel buio della mente –
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza…
La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?
Poesia è il mondo l’umanità
la propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia
delirante fermento
Quando trovo in questo mio silenzio
una parola scavata è nella mia vita
come un abisso
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