2015 - בראשית - Bereshit, "In principio"


Mostra personale

Sarnico, Centro Culturale Sebinia - ex chiesa di Nigrignano Via Vittorio Veneto, 24

dal 16 al 19 aprile 2015


Mostra Personaledi Ciro Indellicati presso il Centro Culturale Sebinia - Sarnico
Centro Culturale Sebinia - ex chiesa di Nigrignano Via Vittorio Veneto, 24 - Sarnico - Ciro Indellicati

C’è una doppia e assoluta coincidenza tra la riflessione artistica di Ciro Indellicati e il tema biblico-creativo da lui indagato. Se, innanzitutto, l’arte è una ri-formazione, ossia la ricerca di una nuova forma sensibile delle cose e del mondo secondo l’ispirazione individuale, ecco che la pittura dell’artista sarnicese offre senza dubbio una visione inedita della materia primordiale (l’aristotelica pròte ùle, si potrebbe dire). In secondo luogo la ri-formazione iconografica di Ciro Indellicati va a coincidere anche con l’eterna ri-formazione del mondo nella prospettiva biblica di Bereshit: la prima parola della Bibbia significa, infatti, non semplicemente in principio, ma anche (e più precisamente) in ogni principio. Prima di Bereshit c’è nulla. Bereshit vuol dire il principio di tutti i principi, il punto zero, ma anche l’attimo perfetto di coincidenza del principio e della fine di tutto. Che cosa è, dunque, l’arte di Ciro Indellicati? Non è un semplicistico atto di fede o un più ironico (o terribilmente serio) “auto da fé” vagamente psicanalitico. Così pure l’astrofisica non c’azzecca (quest’ultima rimane vittima del suo infinitesimale “scarto temporale” per cui il suo bereshit rimane un beffardo e irrisolto chiodo fisso). Per Ciro Indellicati c’è un problema molto serio dentro al quale ci muoviamo: è il problema dei problemi, la domanda delle domande. E l’interrogativo è il seguente: qual è il senso dell’esistente? Una vera provocazione sui massimi sistemi, non c’è che dire. Ma l’arte di Ciro Indellicati non cade nella trappola dell’imbastardimento linguistico e non cede alla lusinga semplificatoria di sofismi da sagrestia. Oriente e Occidente si uniscono nella comune nota culturale di Bereshit che rappresenta, così, il nostro termine letterario più antico (non inteso in senso cronologico). Bereshit è “poesia della domanda prima”. È fame di risposte. E Ciro Indellicati dimostra, in tal senso, la sua ortodossia poetico-letteraria definitiva e pura. Come un redivivo monaco bizantino spacca, sovente, il buio della tela con la non tinta dell’oro, lo squarcio dell’eterno nella contingenza del mondo. I colori sono quelli della tradizione iconico-orientale più severa e classica: il verde o il blu. Dio è blu, non c’è dubbio. Dio “soffia” blu. Straordinario. Lui, Ciro, il monaco-pittore e abitatore del nostro deserto di senso, lo si vede, talvolta, camminare lentamente, poiché l’icona non è affare da poco. E l’icona presuppone la chiamata a raccolta di tutte le facoltà fisiche e intellettuali per cui anche il corpo e il passo rallentano. La concentrazione diventa un turbine e un’ossessione. A volte è un pensiero di settimane o di mesi. È la vertigine dei pensieri. Poi d’improvviso il pennello inizia a correre veloce e parla, quasi, con le lettere dell’alfabeto e degli alfabeti. Questo perché Dio crea parlando. A Dio non servono i talismani, i formulari ampollosi o la bacchetta magica. Dio viaggia leggero. Il pittore diviene, quindi, instrumentum Dei. La verità di Ciro è sacra e potente. Ontologicamente in perfetta tensione ed equilibrio anche nella multidirezionale possibilità filosofica. E da buon bizantino Ciro Indellicati predilige l’astrazione (perché anche la lettera è astrazione di una volontaria sollecitazione nervosa dell’ugola). Figurare liberamente il volto di Dio non è mai stato nelle corde della tradizione orientale. Simboleggiarne la verità, tuttavia, è un anelito che va ben oltre la tradizione ebraico-cristiana. Lo sforzo è supremo. Il battito cardiaco accelera, la mente è confusa. Poi all’improvviso il pannello inizia a correre senza posa.

Massimo Rossi



Ciro Indellicati - mostra d'arte a Sarnico, Centro Culturale Sebinia, Aprile 2015
locandina della mostra "In Principio" di Ciro Indellicati

Gli ebrei traducono la prima parola delle prime pagine del libro divino che noi intitoliamo Genesi, con Bereshit, “in principio”.

Da qui è partito il mio ultimo lavoro, e dalla suggestione del testo poetico “La terra desolata” di Thomas S. Eliot, si è allargato alla esegesi del “libro della Genesi” di Gianfranco Ravasi, per trovare infine una forte e precisa consonanza in un altro poema di Eliot, “Quattro quartetti”.

Parallele alla lettura di questi testi scorrono, come un fiume carsico, le parole di Edmond Jabés.

Sul silenzio dell’essere, sul nulla, il “vento” divino avvia la grande avventura della “separazione” e della “ornamentazione”.

Trasformazione, morte e rinascita in un cosmo, “luogo segreto dello spirito”, nel quale tempo e spazio sono sospesi e trascesi e si condensano in un eterno presente.

La creazione avviene attraverso la Parola e al di là della parola.

Nel racconto della Genesi, tra i versi dei poeti, si sono solidificate sensazioni e suggestioni che hanno cominciato a lasciare i loro segni, hanno preso forma e colore e si sono trasformate in immagini.

Così, nell’arco di oltre un anno, si è andato ad accumulare questo nucleo di opere.

Il linguaggio pittorico che ho utilizzato è in continuità con la ricerca da me intrapresa nella precedente serie di dipinti riuniti nella mostra “Scrivendo pittura” tenutasi a Sarnico nel 2010.

La “cifra” che connotava quel percorso si è, in questo mio nuovo lavoro, decantata ed evoluta anche nell’uso di supporti (alcuni di dimensioni impegnative) e strumenti tradizionali come tele e colori ad olio, senza però distaccarsi mai dai riferimenti più propriamente materici e gestuali che caratterizzano il mio bagaglio espressivo.

Risalendo al concetto di “estetica” come “scienza della conoscenza sensoriale”, ho cercato di sviluppare attorno alle mie opere, l’essenza di unità e separazione, “vita e distanza dalla vita” che stanno in quel “in principio”, Bereshit.

L’idea è, quindi, di intrecciare le mie immagini con testi e musiche, che possano suscitare negli osservatori-spettatori emozioni e meditazioni, senno e poesia.

 Ciro Indellicati


In principio era il Tutto e il Tutto era il verbo sacro e il verbo sacro era il silenzio infinito che nessuno stormire e nessun suono e nessun soffio s’erano levati a turbare.

Ma appena concepito dall’uomo, il Tutto s’inabissò nel Nulla e il Nulla era il vocabolo e il vocabolo era il libro e il libro era il turbamento.

Riusciremo mai a conoscere l’estensione di tale turbamento?

L’atto dello scrivere sfida ogni distanza. Del resto l’ambizione di ogni scrittore non è quella di elevare l’effimero, il profano, all’altezza del duraturo, del sacro?

La scrittura, di opera in opera, è lo sforzo che i vocaboli compiono per estenuare il dire – l’istante – onde potersi rifugiare nell’indicibile. Il quale non è ciò che non può essere detto, ma proprio ciò che è stato detto in modo così intimo e totale che ormai dice solo questa intimità, questa totalità.

A questo punto, profano e sacro appaiono come preludio e termine di uno stesso impegno: quello che per lo scrittore consiste nel vivere la scrittura fino a quella soglia del silenzio su cui sarà da essa abbandonato. Insostenibile silenzio: l’universo, sorpreso, vi emerge, per perdersi a sua volta nel vocabolo, da esso assorbito.

Se si ammette che ciò che rede inquieti, che dà ansia, che affannosamente rimette tutto in questione, è, fin dall’inizio, il profano, allora si deve dedurre che in qualche modo il sacro, con la sua sdegnosa permanenza, da una parte è quel che ci paralizza dentro noi stessi, una specie di morte violenta dell’anima, dall’altra è l’esito deludente del linguaggio, l’ultimo vocabolo pietrificato.

Per questo, solo in relazione al profano, e attraverso di esso, è possibile accedere al sacro. Il quale non si presenta affatto come sacro, ma sacralizzazione d’un profano ebbro di oltrepassare se stesso, insomma come indefinito prolungamento del minuto, e non come eternità estranea dell’istante;

poiché la morte è un affare per il tempo.

Edmond Jabès


Ciò che diciamo principio

spesso è la fine, e finire

è cominciare. La fine

è là onde partiamo. E ogni frase

e sentenza che sia giusta (dove

ogni parola è a casa, e prende il suo posto

per sorreggere le altre, la parola

non diffidente né ostentante, agevolmente

partecipe del vecchio e del nuovo, la comune

parola esatta senza volgarità, la formale

parola precisa ma non pedante

perfetta consorte unita in una danza)

ogni frase e ogni sentenza è una fine

e un principio, ogni poema

un epitaffio. E qualunque azione

è un passo verso il patibolo, verso

il fuoco, verso la gola del mare

o verso una pietra illeggibile: è di lì

che noi partiamo. Noi

moriamo con chi muore: guarda

essi partono e ci portano con loro

Il momento della rosa

e il momento del tasso

hanno uguale durata. Un popolo senza storia

non è redento dal tempo, perché la storia è una trama

di momenti senza tempo. Così

mentre la luce viene meno

in un pomeriggio d’inverno

in una cappella appartata

la storia è adesso, e Inghilterra.

Con la forza di questo Amore e la voce di questa Chiamata

Noi non cesseremo l’esplorazione

e la fine di tutto il nostro esplorare

sarà giungere là onde partimmo

e conoscere il luogo per la prima volta.

Thomas S. Eliot - Quattro quartetti (Little Gidding V)


Opera di Ciro Indellicati - Scin’ar – il dono delle lingue n° 2     2009; Grafite, acrilico, olio su tela;     cm 70x100
Ciro Indellicati - Scin’ar – il dono delle lingue tecnica mista su tela;

La Babele "in principio"

Che ne sarà, alla fine dei tempi, della nostra ricerca di significato ?  Il Signore ci mostra, attraverso Babele, che un nostro  linguaggio unificante non è possibile, e che ogni tentativo umano dà  luogo ad ulteriori linguaggi, inevitabilmente parziali ed incapaci, per sé soli, di accedere al Principio.

La capacità di corrispondere col senso ultimo delle cose presuppone invece la consapevolezza della sua irriducibilità alla nostra misura. E così, nel dipinto di Ciro Indellicati vi è sì la traccia, il segno dei linguaggi umani con i quali si cerca di dar nome e possibilità di  lettura del Creato, ma il pittore, avuta la piena comprensione del limite, prende una decisione. La pergamena, la tela su cui quei segni sono iscritti come testimonianza dello sforzo umano, troppo umano, verrà recisa, strappata, divelta. Perché nessun segno non può che rimandare ad altro segno, lontana ed analogica memoria di qualcosa di radicalmente altro. Il pittore reciderà quindi la catena infinita di rimandi.

L’Inizio si cela, definitivamente inconoscibile coi mezzi umani, appena dietro quello squarcio attraversato dal gesto del pittore. Si starà così di fronte a tutta la nuda profondità del Mistero. Il Mistero sarà dunque amato per ciò che è, come Mistero ?   La suggestione di Ciro abbraccia biblicamente la ricerca  umana prefigurando un distacco amoroso, per fedeltà al Principio, dalla pura dimensione del Libro.

Francesco Zucaro